Centri città desertificati o cambiati?

Centri città desertificati o cambiati?

I dati forniti da Confcommercio e Confesercenti circa la situazione dei locali, non solo quelli impegnati nella ristorazione, è inquietante. Il periodo della Pandemia, ufficialmente concluso il 5 maggio 2023 ha accelerato una tendenza in atto da diversi anni che ha visto la progressiva desertificazione dei centri storici. Prima della Pandemia la ragione prevalente era legata ai costi esorbitanti degli affitti e alla concorrenza diretta della GDO e dei grandi spazi commerciali occupati dalle catene tematiche, dove i costi dei prodotti sono subito risultati competitivi per il consumatore rispetto a quelli del negozio di prossimità, oberato dai costi fissi spalmati su un numero esiguo di articoli.

Le catene tematiche (Calzedonia, Intimissimi, Tezenis, Yamamay…) hanno soppiantato le mercerie così come i ‘format’ (La Piadineria, Poke House, La pescheria, Signorvino, Dispensa Emilia…) rappresentano la concorrenza diretta del ‘baretto’ dell’angolo sempre più orientato a trasformarsi in ufficio postale o ricevitoria grazie al collegamento con Lottomatica.

I centri storici delle città, dove si affolla la maggior concentrazione di negozi, sono ormai commercialmente omologati. Certo chi guarda oltre i negozi, se ad esempio è a Firenze vede la cupola di Santa Maria del Fiore… ma se lo sguardo è frontale, via dei Calzaiuoli potrebbe benissimo essere qualsiasi via dello shopping di Milano, Roma, Bari, Torino. I negozi sono gli stessi così come i grandi magazzini e i ‘format’ dove rifocillarsi.

Cosa è successo?

Non è una novità, non è ‘colpa’ dello smart working o della pandemia ma si tratta di una tendenza economica e culturale che impatta sulla nostra percezione delle città e sulle nostre abitudini. Non saprei dire se è meglio o peggio: se devo comprare un paio di calze è meglio la vecchia merceria o Golden Point? Cosa è più comodo? È più smart mangiare un piattino al bar, cucinato nel retro dell’esercizio o un pokè nel locale simil hawaiano?

Cambia la cultura, cambiano le città

I cambiamenti culturali sono una costante nell’evoluzione dei popoli, per quanto riguarda il nostro Paese sono stati impetuosi dal dopoguerra agli anni ’70 e da lì in poi un vero e proprio fiume in piena, incanalato dalla tecnologia e che ha rotto gli argini, per quanto riguarda le abitudini, con la recente Pandemia. Quello che è certo è che i cambiamenti culturali influenzano quelli sociali, ambientali ed economici. Non è detto che il cambiamento sia sempre positivo e che contribuisca in modo significativo ad accelerare i processi di evoluzione in chiave smart.

Dal focolare ai ‘rider’

La ristorazione in particolare è il termometro del cambiamento impetuoso. Non tanto nella preparazione del cibo che da sempre è legata alle mode, basti pensare a piatti come le ‘pennette alla vodka’ o al ‘cocktail di gamberetti’, inequivocabilmente anni ’80, quanto nella delocalizzazione delle preparazioni e alle occasioni che trascendono la convivialità.

Un cambiamento sostanziale è, infatti, avvenuto nella fruizione. Sempre più le nostre città assomigliano alle metropoli di Paesi come la Cina, l’India o gli stati Uniti dove il ‘delivery’ è una modalità consolidata. In Cina il fenomeno è dovuto alla tradizione (i cinesi consumano 5/6 pasti al giorno) e alla ridotta se non assente presenza di cucine in casa nonché alle condizioni sociali dove le donne, che tradizionalmente cucinano, sono impegnate sei giorni su sette al lavoro. Lo stesso accade in India e, per motivi diversi, nelle metropoli statunitensi dove la consegna di cibo a domicilio è ormai tradizione (chi non ha presente il ‘rider che consegna le pizze in mille film americani degli anni 70?).

Fast food contro slow food

Il fenomeno dei ‘rider’ che sfrecciano sulle loro bici incuranti della segnaletica e del traffico per consegnare a domicilio cibo preparato per lo più in ‘locali format’ specializzati in street food e fast food è il ‘Fenomeno’ che ormai è sotto gli occhi di tutti e che caratterizza le metropoli sempre più ‘fast’ e la provincia ancora legata allo slow.

Giulio Maria Spreti